E’ indubbio che la “pianta dell’euro-scetticismo” abbia ormai messo forti radici anche nel nostro Paese. Si tratta di un fenomeno comprensibile e, a nostro avviso, in larga misura condivisibile giacché è innegabile che con l’introduzione dell’euro si sia venuto a creare un gigantesco squilibrio tra Paesi dell’Europa Settentrionale e Paesi dell’Europa Meridionale. Squilibrio reso ancora più grave dalla crisi finanziaria che non solo ci è costata 5,5 punti di Pil nel 2009, ma, dopo una leggera ripresa economica nel 2010-2011, ha pure reso possibile l’attacco speculativo da parte dei cosiddetti “mercati”, i quali ovviamente hanno beneficiato non poco dalla cessione della sovranità monetaria dell’Italia alla Bce. Non meraviglia allora che in queste condizioni per l’Italia sia diventato un peso pressoché insostenibile spendere quasi 90 miliardi di euro all’anno per gli interessi sul debito, mentre quest’ultimo continua a crescere insieme con la pressione fiscale, la quale rischia di uccidere la gallina delle uova d’oro, ovvero quella miriade di piccole e medie imprese che, insieme ad alcune (poche) grandi imprese di importanza strategica ed alla invidiabile posizione geografica del Belpaese, sono l’unica nostra autentica “ricchezza nazionale”. Sulla drammatica situazione economica del nostro Paese del resto, i dati dell’Istat (1) sono estremamente chiari: non solo tra il 2008 e il 2012 è stato perso oltre l’80% della crescita realizzata dal 2000 al 2007, ma rispetto al 2001 si è registrata sia una riduzione del numero di imprese dell’industria in senso stretto (-18,4%, ossia 100000 imprese in meno) sia una flessione occupazionale del 17,5% (cioè circa 900000 addetti in meno). E le previsioni per l’anno in corso stimano per l’Italia una diminuzione del Pil dell’1,8%, con una crescita modesta nel 2014 dello 0,7% per l’Istat, dello 0,6% per l’Ocse mentre secondo Standard & Poor’s sarebbe solo dello 0, 4%). (2). Tenendo conto della flessione del Pil negli anni scorsi, è palese che un tale modestissimo tasso di crescita (ammesso che vi sia) significa che in realtà non vi è una vera crescita (né un autentico sviluppo) ma semplicemente che si è in una fase di “stagnazione”. Tanto è vero che la disoccupazione è a livelli altissimi (quella giovanile è addirittura oltre il 40%) e non si prevede che possa diminuire nemmeno nel 2014, mentre si deve registrare anche una diffusione della ”severa deprivazione” superiore alla media europea (9,9%), in quanto sono aumentate le persone in grave disagio economico: nel 2012 erano il 14,5% dei residenti in Italia, 3,3 punti in più rispetto al 2011. (3) Inoltre sempre più preoccupante è il calo del tasso di risparmio delle famiglie italiane, in passato elevato nel confronto internazionale: a partire dal 2009, la propensione al risparmio delle famiglie italiane è divenuta inferiore a quella media dell’area dell’euro, (4) anche se la ricchezza netta delle famiglie italiane alla fine del 2012 era pari a 8 volte il reddito disponibile lordo. (5)
Particolarmente significativo per comprendere la gravità della crisi che attanaglia il nostro Paese è quanto è accaduto nell’istituto comprensivo di Prato Iva Pacetti: disponendo solo di 5000 euro, su 18 precari che hanno svolto supplenze brevi (insegnanti e personale Ata) sono stati sorteggiati i cinque “fortunati” che avranno lo stipendio (quattro insegnanti e un addetto ai servizi scolastici). E non è un caso isolato perché altri istituti comprensivi e superiori hanno esaurito i fondi del Mef da cui dipende il pagamento degli stipendi dei precari per le supplenze brevi. (6) In realtà, le risorse finanziarie di numerose scuole pubbliche si sono ridotte nel giro di pochi anni di oltre il 50%. E il sistema sanitario nazionale non gode di migliore “salute”. Di fatto, si tratta di situazioni tanto più serie in quanto si sa che diventerebbero la “norma” (indipendentemente dal tasso di crescita!) se si dovessero accettare i diktat della troika (che, tra l’altro, onde far valere le “misure” e le “proporzioni” dei “mercati” non ha certo interesse a mettere in evidenza che, nonostante tutto, la base produttiva del nostro Paese è ancora “sana e robusta”). Nulla di strano allora che buona parte degli italiani veda nell’euro e nell’“Europa dei banchieri” la principale, se non l’unica, causa dei propri guai. E non saremo certo noi a fare l’apologia dell’euro e della Ue. Nondimeno, è semplicistico pensare che basterebbe uscire da Eurolandia per risolvere di punto in bianco i problemi dell’Italia. Al riguardo – al di là dalle questioni tecniche che potrebbero essere risolte (così almeno pare di capire leggendo economisti come Sapir, Amoroso o Bagnai) se ci fosse la volontà politica di risolverle – è di fondamentale importanza comprendere che Eurolandia esiste per precise ragioni geopolitiche. E sono queste ragioni che si devono tener presenti se si vuole uscire dal vicolo cieco in cui ci si trova. Invero, non basta nemmeno scagliarsi contro la “finanza cattiva”, quasi che il cosiddetto “finanzcapitalismo” (termine usato dal sociologo Luciano Gallino) fosse piovuto dal cielo e non fosse frutto delle scelte geopolitiche della potenza capitalistica predominante.
Certamente, non si può negare che ormai la grande finanza occupi una “posizione dominante” in quella che si suole definire l’“élite del potere” statunitense (e, in generale, occidentale). Tuttavia, non si deve dimenticare che fu una decisione politica a sganciare il dollaro dall’oro all’inizio degli anni Settanta – una iniziativa strategica che permise agli Usa di ridefinire gli equilibri internazionali e in seguito, con Reagan, di sferrare un’offensiva decisiva contro l’Unione Sovietica e il socialismo scandinavo. Una rottura unilaterale degli equilibri raggiunti con gli accordi di Bretton Woods nel 1944 (accordi che avevano sancito la fine dell’egemonia della Gran Bretagna e l’inizio di quella degli Stati Uniti) e che, grazie pure alla innovazione tecnologica favorita dalle gigantesche spese militari degli Stati Uniti, permise di ritornare a politiche liberiste e, di conseguenza, di trasformare anche il sistema occidentale (che era basato sulle politiche economiche neokeynesiane), disintegrando le “tradizionali” classi sociali. Né è un caso che proprio all’inizio degli anni Ottanta sia avvenuto quel “divorzio” tra Tesoro e Bankitalia, che è a fondamento della crescita del debito pubblico italiano, né che nella prima metà degli anni Novanta, ossia dopo il crollo dell’Unione Sovietica, si siano create le condizioni per la (s)vendita di gran parte del nostro settore strategico pubblico. Ma naturalmente non è casuale neppure che negli stessi anni Novanta Clinton abbia liberalizzato quasi completamente il movimento di capitali, ponendo le premesse per la successiva crisi finanziaria, o che sia stato messo il carro (l’euro) davanti ai buoi (l’unione politica europea), allorché era chiaro che era impossibile impedire la riunificazione della Germania. In sostanza, la politica, il conflitto sociale e l’economia dei singoli Paesi sono sempre più “sovradeterminati” dagli squilibri/equilibri geopolitici, nel senso che sono parte di una totalità storico-sociale che muta al variare dei rapporti tra i diversi attori geopolitici, e in primo luogo al variare della politica di potenza e della strategia degli Stati Uniti in quanto Stato capitalistico predominante (o qualcuno crede che la globalizzazione “americanocentrica” non abbia alcun significato politico?).
Pertanto limitarsi a dire “no” all’euro, senza avere alcun serio progetto politico da contrapporre a questa Ue, né alcun interesse per i mutamenti che stanno trasformando gli equilibri geopolitici mondiali, non solo è semplicistico e frutto di una rozza visione economicistica del conflitto politico e sociale, ma può portare a scegliere dei rimedi che, se non sono peggiori del male che si vuol curare, non ne rimuovono le cause. Del resto, non dovrebbe sfuggire a nessuno che, rebus sic stantibus, sganciarsi da Eurolandia senza cercare di sganciarsi nel contempo dai “mercati”, ovvero dalla politica di potenza degli Usa, avrebbe ben poco senso. In politica estera improvvisazione e pressappochismo si pagano con “lacrime e sangue”, come insegna anche e soprattutto la storia d’Italia. Occorrerebbe cioè non solo mettere da parte lo spirito di fazione ma agire con ordine mentale e cognizione di causa, giacché battersi contro Eurolandia è indubbiamente necessario ma non sufficiente. Indispensabile sarebbe, oltre che cercare accordi e alleanze con altre forze europee “euro-scettiche”, agire tenendo conto che la maggior parte dei tecnocrati della Ue e soprattutto della classe dirigente italiana, che difende a spada tratta l’euro, sono al servizio degli interessi dei “centri di potere” d’oltreoceano. Il vero “nemico” da battere insomma non è l’Europa ma l’”euro-atlantismo”. In quest’ottica si dovrebbero affrontare il problema dell’euro e la stessa “questione tedesca”, altrimenti rimarrebbero in essere tutti quei meccanismi e quelle condizioni che sono all’origine dei mali che affliggono l’Italia. (Dato che abbiamo già trattato in altri articoli sia la “questione tedesca” che quella dell’indipendenza dell’Europa, qui è sufficiente rilevare che non conta tanto quello che un attore geopolitico vuole fare quanto quello che un attore geopolitico può fare. Di ciò gli Usa sono perfettamente consapevoli, al punto che il rafforzamento del dispositivo militare statunitense nell’Europa Orientale non è solo in funzione anti-russa – che sia in funzione anti-iraniana è assurdo solo pensarlo – ma mira pure a rendere impossibile la formazione di un asse geostrategico “euro-russo”, che metterebbe fine al dominio statunitense sul Vecchio Continente)
D’altronde, si deve riconoscere che non è neppure irrilevante (tutt’altro!) il modo in cui politici e giornalisti “di regime” si stanno comportando nei confronti del movimento dei “Forconi” (ma pure nei confronti di altri gruppi e movimenti). Ignorare le ragioni della protesta popolare o confonderle con le espressioni di rabbia di alcuni di coloro che protestano è un segno inequivocabile del fatto che sta diventando sempre più profondo il solco che separa la classe dirigente italiana dal “Paese reale”. In effetti, è lecito ritenere che il nostro Paese sia maturo per un “cambiamento radicale”, adesso che sono evidenti a chiunque i guasti e i danni causati dal demenziale (anti)berlusconismo che ha dominato la scena politica italiana di questi ultimi due decenni, ma, come giustamente osserva anche Gianfranco La Grassa, (7) un movimento “acefalo” è destinato ad essere sconfitto (come capitava – per intendersi – ai contadini che venivano “regolarmente” massacrati dai cavalieri o dai baroni, ché la rabbia e il valore dei singoli non potevano che infrangersi contro la roccia della disciplina, della tattica e dell’organizzazione). Infatti, vi sono già scissioni e polemiche tra i vari capi della “rivolta”. Eppure la protesta dei “Forconi” (come la crescita dell’“astensionismo” o il successo nelle ultime elezioni politiche del Movimento Cinque Stelle, che pure sta pagando assai caro il fatto di non avere alcuna salda e coerente dottrina politica – una lacuna che non raramente porta i “pentastellati” a difendere posizioni qualunquiste secondo una concezione “ingenua” e superficiale della “reali ragioni” del conflitto politico e sociale), è indice che vi sarebbe spazio per una forza politica che avesse come obiettivo la riconquista della sovranità nazionale (dello Stato!), allo scopo di riguadagnare quei margini di manovra strategica senza i quali (tra l’altro) è impossibile rinnovare il “sistema Italia” e confrontarsi con le sfide dell’attuale fase storica. D’altro canto, se anche Babbo Natale, per così dire, dovesse riuscire a spegnere questo incendio, ce ne sarà certo un altro nei prossimi mesi e con ogni probabilità sarà ancora più vasto. Decisivo sarà quindi se si formerà o no un gruppo politico tale da conferire unità d’azione ai vari movimenti di protesta e che abbia chiaro che non solo non si può ricacciare nel baratro del sottosviluppo un intero continente che si è liberato definitivamente dal “giogo occidentale”, ma che sotto il profilo strategico nulla conta più della lotta contro l’“euro-atlantismo” (in questo senso, si può convenire con La Grassa che perfino la presenza di un “principe” populista”, ma capace di flessibilità tattico-operativa e con le idee “chiare e distinte” riguardo al fine da perseguire, non sarebbe un prezzo troppo alto da pagare). Ragion per cui, a nostro giudizio (benché in questi casi l’ottimismo sia l’oppio degli sciocchi), se si vuole evitare che la “nave Italia” affondi, sarebbe necessario trasformare il sistema italiano alla luce di un nuovo orientamento (geo)politico, promuovendo, insieme con altre forze politiche europee, una rifondazione della stessa Ue, ma in primo luogo individuando ed eliminando (politicamente, s’intende) tutte quelle “quinte colonne” che, al fine di tutelare i propri privilegi, da decenni agiscono contro l’interesse nazionale e, in definitiva, contro l’interesse della stessa Europa.
Note
4)http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/qef148/QEF_148.pdf
5)http://www.bancaditalia.it/statistiche/stat_mon_cred_fin/banc_fin/ricfamit/2013/suppl_65_13.pdf
7)http://www.conflittiestrategie.it/quando-finira-il-surplace-di-glg-12-dic-13