Razman Abdulatipov, nato nel 1946 nel distretto di Tlyaratinsky, è diventato l’estate scorsa il nuovo presidente della Repubblica Autonoma del Daghestan. Essendo il Presidente di uno dei soggetti federali che più in questi anni hanno influito sulle strategie moscovite, è opportuno riflettere su questo personaggio per comprendere gli esatti rapporti tra il Cremlino e la Repubblica Daghestana.
La carriera di Abdulatipov inizia negli anni Sessanta, quando, dopo la laurea, insegna Filosofia e Storia all’Università di Leningrado e a Murmansk. Fedele membro del PCUS, inquadrato nei ranghi della professione politica, si fa subito notare nel panorama politico daghestano. Sfruttando le opportunità offerte dal progressivo smantellamento dell’URSS e dalle spinte centrifughe che investono le varie questioni nazionali, nel 1988 accetta la proposta fattagli da Gorbaciov e diviene rappresentate del Daghestan nel Soviet Supremo, riuscendo a scalzare il ben più favorito Magomed Tolboyev.
È in quegli anni che Razman acquisisce le conoscenze necessarie per attestarsi come uomo di fiducia del Cremlino in Daghestan. In particolare, riesce a rimanere in sella anche dopo la definitiva fine dell’era sovietica, tanto che anche El’cin nel 1995 gli assegna il Ministero delle Nazionalità, diventato scottante in seguito alla deficitaria conduzione della guerra di Cecenia da parte delle autorità federali. In questa sede Razman forgia una strategia per le nazionalità che si distingue per la fattibilità e la lungimiranza, proponendo una miscela di libertà politiche correlate a precisi obblighi militari ed economici da parte dei soggetti interessati del decentramento.
Tuttavia la sua sorte politica è strettamente connessa al lassismo eltsiniano: quando Putin, nel 1999, con la seconda guerra cecena ristabilisce la presenza statale nel Caucaso del Nord, la linea del decentramento di Razman viene accantonata. Per allontanarlo dalla zona calda viene nominato rappresentante dell’Oblast di Saratov nel Parlamento Federale, e in seguito inviato come ambasciatore in Tagikistan, dove può far valere la sua capacità di mediazione tra la “periferia musulmana” dell’estero vicino e Mosca.
Dopo l’esperienza in Tagikistan, conclusasi nel 2009, torna in Russia dove svolge la mansione di rettore di un’università di Mosca. Si eclissa dalla vita politica, intervenendo poco nei turbolenti affari caucasici. Viene richiamato dalle autorità politiche nel 2010 quando è delegato per conto dell’autorità federale al Congresso Nazionale Daghestano, convocato dall’allora Presidente Magomedsalam Magomedov.
Progressivamente la sua figura torna ad avere una certa valenza. Sempre più spesso si parla di lui come della persona giusta per ristabilire quella connessione necessaria tra il centro federale e le movimentate regioni frontaliere. Consensi che si palesano quando viene indicato da Putin come presidente della Repubblica Daghestana, carica che ottiene la scorsa estate.
Il profilo di Abdulatipov è quindi ciò che serve a Mosca? Sicuramente la scelta di Putin è oculata: aver indicato un uomo da sempre membro dell’apparato statale allargato, conosciuto e stimato negli ambienti politici e religiosi sia caucasici che moscoviti, è un messaggio di pacatezza istituzionale e volontà di normalizzazione.
La sfida di Abdulatipov infatti è “allungare” le spinte islamiste ostili a Mosca. È infatti il comune sostrato islamico che da un lato ha generato l’estremizzazione della lotta per l’indipendenza da Mosca, e dall’altro ha consentito alla guerriglia wahhabita locale di saldarsi con i nuovi centri dell’islamismo radicale sorti negli ultimi decenni: Afghanistan e Arabia Saudita.
A ritirarsi nelle aspre montagne del Caucaso settentrionale sono spesso i giovani (chiamati in gergo “imboscati”) esclusi dall’asfittica economia del piccolo stato montano. La via della ribellione armata di segno religioso dà quindi una risposta frustrante alle istanze sociali di larghe fasce della popolazione. Da questo bacino la rete islamista internazionale pesca la manovalanza guerrigliera.
Da queste considerazioni emergono le linee guide che tengono la barra della risposta delle autorità centrali: repressione poliziesca e militare dei gruppi armati, sviluppo dell’economia nazionale per erodere il consenso sociale alla ribellione e costruire un ambiente musulmano “amico”. In questo la conoscenza da parte di Abdulatipov di elementi dell’Islam sufi quali Saif Afandi, elemento da sempre impegnato nel dialogo tra l’autorità centrale e la componente islamista della politica daghestana, ucciso peraltro nell’estate scorsa, può risultare utile proprio in questa direzione.
Necessità ancora più pressante da quando si prospetta il ritorno in patria di centinaia di giovani daghestani partiti alla volta della Siria, mobilitati da Doku Umarov (capo del fantomatico Emirato del Caucaso, maggiore sigla jihadistica della regione). Contro questo pericolo ha tuonato proprio Abdulatipov, che in una riunione con i legati da Mosca, ha sostenuto: «Noi da tempo stiamo discutendo della lotta al terrorismo ed abbiamo ottenuto dei ‘grandi risultati’: siamo diventati fornitori di estremisti in tutta la Russia. Ed ora li esportiamo anche fuori dei confini del paese. L’unico ‘prodotto’ che esportiamo all’estero è l’estremismo. Già lo stiamo incoraggiando, nelle scuole, nelle università, nei villaggi. E sembra che nessuno sia responsabile per questo, né l’insegnante, né il direttore della scuola, né il decano, né il rettore, né, tanto meno, il poliziotto» (1).
Pericoli peraltro confermati da Andrej Konkin, capo della FSB russa nella zona.
Razman Abdulatipov è quindi l’uomo in cui Mosca cerca stabilità e capacità di riaffermare la presenza dello Stato Centrale sulla riottosa provincia di confine.
1. http://www.eastjournal.net/daghestan-estremisti-in-siria-coi-ribelli-si-annuncia-una-stretta-sui-passaporti/33285