Il rovesciamento dell’inadeguato presidente Viktor Yanukovich, verso il quale la stampa occidentale ha comunque messo in atto il consueto processo di demonizzazione, rappresenta il culmine dell’offensiva statunitense, mirante a recuperare le posizioni perse con il fallimento delle cosiddette “rivoluzioni colorate” e con la figuraccia internazionale rimediata riguardo alla crisi siriana.
Un fatto degno di nota è proprio che, come in Siria e in Libia, il senatore repubblicano John McCain si sia recato, seguito a rimorchio dall’immancabile Bernard Henry-Levy, in territorio ucraino allo scopo ufficiale di portare la propria “solidarietà” a quella che la propaganda occidentale descrive come una popolazione schiacciata sotto il tallone di ferro del regime dittatoriale filorusso di Kiev, nonostante la regolarità delle elezioni che hanno decretato l’ascesa al potere di Yanukovich, massimo esponente del Partija Rehioniv (Partito delle Regioni) sia stato certificata da decine di osservatori OCSE. La Russia, conscia dello scenario che andava profilandosi, mitigò lo slancio anti-governativo che in un primo momento contraddistinse la politica tenuta dall’Europea nei confronti dell’Ucraina caricando su YouTube un filmato in cui il funzionario del Dipartimento di Stato Victoria Nuland (moglie del neocon Robert Kagan) pronunciava un secco «Fuck UE» per esternare all’ambasciatore statunitense a Kiev Geoffrey Pyatt la propria frustrazione di fronte all’approccio moderato adottato dai rappresentanti europei nell’affrontare la crisi ucraina. Una crisi fondata su reali rivendicazioni popolari, poiché l’Ucraina è molto vicina alla bancarotta ed è investita da un processo di massiccia concentrazione della ricchezza (un po’ come gli Stati membri dell’Unione Europea) nelle mani di una élite oligarchica emersa prepotentemente con il crollo dell’Unione Sovietica (élite di cui fanno parte sia Yanukovich che la “pasionaria” Julia Tymoshenko), che poteva essere gestita in maniera diplomatica, finché i movimenti neofascisti Svoboda (Libertà), Pravi Sektor (Ala Destra) e Spilna Prava (Causa Comune) non ne assumessero il controllo, secondo il consolidato copione siriano.
Anche in Siria, le proteste popolari avevano portato Bashar al-Assad ad instaurare un clima di apertura in cui Damasco propose una serie di riforme molto importanti (come la revoca dello Stato di emergenza), approvate le quali la protesta venne monopolizzata da gruppi jihadisti violenti composti da miliziani provenienti dall’intera galassia islamica. E come in Siria, i rivoltosi hanno potuto beneficiare di grande sostegno da parte degli USA., il cui appoggio si inquadra nel contesto delineato a suo tempo da Carl Schmitt, il quale ebbe a scrivere che «In qualche modo il partigiano, in quanto combattente irregolare, deve sempre appoggiarsi ad una potenza regolare (…). Il potente terzo non fornisce soltanto armi, munizioni, denaro, sussidi materiali e medicinali di ogni tipo, ma procura anche quel riconoscimento politico di cui il partigiano che combatte irregolarmente ha bisogno per non sprofondare» (1).
La differenza sta nel fatto che nei confronti dell’Ucraina sono stati rispolverati i metodi, già impiegati nel 2004, che prevedono l’afflusso massiccio di una schiera di Organizzazioni Non Governative (ONG) incaricate di “plasmare” la rivolta secondo i dettami indicati nel celeberrimo manuale Sharp, tradotto in decine di lingue e distribuito gratuitamente dalle organizzazioni facenti capo a Washington. Ad infiammare piazza Maidan hanno contribuito decine di reduci di Otpor, l’organizzazione serba fondata dal veterano della CIA Robert Helvey che svolse un ruolo cruciale nella definitiva esautorazione di Slobodan Milosevic, ma alla testa del nugolo di ONG che hanno fornito un contributo fondamentale nello scatenamento del caos in Ucraina si colloca indubbiamente Open Dialog, istituzione fondata e finanziata dal magnate George Soros che fin dall’inizio della rivolta era alla ricerca di “volontari” che sponsorizzassero le proteste con esperienze come fotografi, giornalisti ed infermieri. Come ha dichiarato apertamente la Nuland in occasione del National Press Club sponsorizzato da US-Ukraine Foundation, Chevron e Ukraine-in-Washington Lobby Group, dai primi anni ’90 gli Stati Uniti hanno attivato un fiume di finanziamenti (complessivamente pari a 5 miliardi di dollari) allo scopo di reclutare uomini d’affari d’alto livello e funzionari statali, così da rafforzare il progetto statunitense che mira a trasferire l’Ucraina dalla sfera egemonica russa allo schieramento occidentale. Come scrive Zbigniew Brzezinski: «L’Ucraina, nuovo e importante spazio nello scacchiere eurasiatico, è un pilastro geopolitico perché la sua stessa esistenza come paese indipendente consente di trasformare la Russia. Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero eurasiatico. La Russia senza l’Ucraina può ancora battersi per la sua situazione imperiale, ma diverrà un impero sostanzialmente asiatico, probabilmente trascinato in conflitti usuranti con le nazioni dell’Asia centrale, che sarebbero sostenute dagli stati islamici loro amici nel sud (…). Ma se Mosca riconquista il controllo dell’Ucraina, coi suoi 52 milioni di abitanti e grandi risorse naturali, oltreché l’accesso al Mar Nero, la Russia automaticamente riconquisterà le condizioni che ne fanno un potente stato imperiale esteso fra Asia ed Europa» (2).
Anche nel 2004, l’ONG di George Soros si era posta a capo dello schieramento formato da Albert Einstein Institute, National Endownment for Democracy, Konrad Adeanuer Foundation, Friedrich Ebert Foundation ecc., che alla vigilia della “rivoluzione arancione”, aveva fatto irruzione nello scenario ucraino acquistando giornali e canali televisivi allo scopo di preparare il terreno per la rivolta. Queste ONG hanno attecchito quasi esclusivamente nelle regioni occidentali del Paese, abitate da popolazioni cattoliche, culturalmente vicine alla Polonia ed animate da un forte sentimento anti-russo, determinate ad opporsi al processo di riavvicinamento a Mosca messo in atto dal presidente Yanukovich, prontamente incriminato per “omicidio di massa” e dichiarato “latitante” dal governo ad interim, nonché accusato di alto tradimento da diversi membri del suo stesso partito, in quello che appare come un fenomeno di “dissociazione opportunistica” molto simile a quello che interessò l’Italia nel 1943.
Fin dai tempi in cui ricopriva la carica di primo ministro, Yanukovich, proveniente dai ranghi della vecchia industria pesante che sorgeva nelle zone orientali dell’Ucraina (fortemente dipendenti dagli approvvigionamenti energetici russi), aveva assecondato il disegno eurasiatico elaborato dal presidente russo Vladimir Putin avviando una politica di apertura nei confronti di Mosca che aveva permesso a Kiev di capitalizzare significativi successi in ambito economico (a partire dal primo aumento salariale e pensionistico dai tempi del collasso dell’Unione Sovietica). Ma le oscillazioni filo-russe, aggravate dal rifiuto opposto dal binomio Kuchma (allora presidente ucraino ed ex membro dell’esercito sovietico)-Yanukovich alla richiesta inoltrata da diverse compagnie petrolifere occidentali (Chevron in primis), nell’ambito di un progetto relativo alla realizzazione di un condotto che avrebbe dovuto attraversare per oltre 1.000 km il fondale del Mar Nero (collegando il porto georgiano di Supsa allo snodo ucraino di Odessa, proseguendo fino ai terminali polacchi di Gdansk, sul Mar Baltico), spinsero gli Stati Uniti e i loro alleati a finanziare la cosiddetta “rivoluzione arancione”, che determinò l’ascesa dei candidati filo-occidentali Viktor Yushenko alla presidenza e Yulia Tymoshenko ai vertici del governo, i quali accolsero immediatamente le richieste delle compagnie petrolifere occidentali e inaugurarono una politica decisamente ostile nei confronti alla Russia, il cui culmine è rappresentato dall’avviamento dell’iter burocratico propedeutico all’entrata dell’Ucraina nella NATO.
Nel 2008, il binomio Yushenko-Tymoshenko si rese protagonista di una serie di scontri diplomatici piuttosto duri con la Russia, opponendo un cospicuo aumento delle tasse derivanti dal transito del gas russo (royalty) attraverso il corridoio energetico ucraino alla pretesa della Gazprom – avanzata nel periodo in cui voci insistenti accreditavano l’ipotesi dell’entrata dell’Ucraina nella NATO – di portare il prezzo del gas destinato all’Ucraina ai normali livelli di mercato. La diatriba tra i due Paesi si protrasse per diversi anni e culminò nel gennaio 2009, in perfetta corrispondenza temporale con la scadenza stabilita nel contratto che regolava i termini del transito, quando Gazprom decise di interrompere il flusso di gas destinato all’Europa. Questa mossa strategica sorti il duplice effetto di portare gli europei a comprendere appieno l’urgenza di individuare vie di approvvigionamento energetico stabili ed indipendenti dalle turbolenze interne ai singoli Paesi (a ciò è dovuta la costruzione dei due gasdotti Nord Stream eSouth Stream) e di provocare una pesante crisi economica in Ucraina, che favorì il crollo politico di Yushenko e il fallimento della “rivoluzione arancione”. Una volta tornato al potere, Yanukovich proseguì una politica di conciliazione nei confronti del Cremlino che permise all’Ucraina di usufruire del 30% di sconto sulle forniture di gas russo (in cambio di una serie di concessioni economiche e militari a Mosca) e all’Europa di ricevere in maniera stabile le necessarie forniture energetiche.
Tale politica distensiva rischia tuttavia di essere seriamente compromessa con la caduta del governo in carica. Se il “rifiuto” di Yanukovich alle proposte di partnership europea avanzate dal Cancelliere Angela Merkel aveva inizialmente evitato lo scoppio di una nuova crisi tra Russia e Ucraina analoga a quella del 2009, la probabile instaurazione di un regime anti-russo (come testimoniato dalla “riesumazione” dell’oligarca Julia Tymoshenko, che pure aveva visibilmente moderato i propri ardori anti-russi verso la fine del suo mandato) rischia di determinare un intervento del Cremlino a difesa della componente russofona e una intensificazione dello scontro con gli USA che inchioderebbe la miopia strategica dell’Unione Europea e spalancherebbe le porte a una divisione del Paese che alimenterebbe a sua volta un clima destabilizzante destinato a ripercuotersi pesantemente anche in Europa. L’insediamento di un regime iper-nazionalista, russofobo aperto al “dialogo” con la NATO appoggiato da Svoboda e dagli altri movimenti di estrema destra troverebbe infatti l’opposizione frontale delle corpose componenti russofone e ortodosse residenti nelle regioni più orientali, secondo le quali la naturale collocazione strategica dell’Ucraina, specialmente alla luce delle evidentissime affinità etno-culturali, sia a fianco di Mosca. Esse considerano l’indipendenza nazionale alla stregua di una secessione forzata, che priverebbe lo spazio spirituale e geopolitico russo di una fondamentale ed imprescindibile componente. L’evidente, inconciliabile discordanza tra le parti in conflitto rispecchia quindi la differente opinione che gli ucraini hanno riguardo al genere di rapporto che Kiev dovrebbe stringere con Mosca. Il che significa che la stessa definizione di identità nazionale elaborata tanto dai russofobi quanto dai russofili scaturisce da una diversa visione della Russia, e nasce proprio in contrapposizione ad essa. Il presunto anelito “europeista” che la maggior parte degli osservatori internazionali ritiene sia alla base delle sommosse non è altro che un semplice riflesso di questa profonda spaccatura.
L’Unione Europea, colpita massicciamente dalla crisi economica, non dispone infatti di alcuna ancora di salvezza da offrire all’Ucraina, mentre la Russia può attingere ai propri fondi sovrani per proporre un prestito speciale (analogo a quello concordato diversi mesi fa) o un ulteriore sconto sul prezzo del gas naturale per sventare il pericolo della bancarotta nazionale. In cambio, il Cremlino potrebbe porre clausole volte ad evitare la frammentazione dell’Ucraina o l’insediamento di un governo supino agli interessi atlantici, ed anche richiedere l’adesione dell’Ucraina all’Unione Doganale (che attualmente comprende Bielorussia e Kazakistan).
Da ciò si evince che la principale leva attraverso cui Putin sta cercando di ridisegnare gli equilibri geopolitici regionali è quella energetica, e non potrebbe essere altrettanto, vista e considerata la ricchezza di idrocarburi di cui gode la Russia e la sua collocazione geografica. Per cui, per quanto soverchiante sia il peso che i fattori storici e culturali esercitano sui precari equilibri che sorreggono l’Europa orientale, l’unico elemento capace di produrre un’autentica svolta è rappresentato dall’energia. Con questa dura realtà geopolitica dovranno ben presto fare i conti anche la Polonia, la Moldova e i Paesi Baltici, i quali hanno reagito con sdegno al “dietrofront” iniziale di Yanukovich poiché da anni premono per allargare il fronte occidentale attraverso l’ampliamento verso Est dell’Unione Europea e della NATO, in conformità alla loro marcata ostilità nei confronti della Russia. In passato, questa ostilità aveva portato alla sottoscrizione, verso l’inizio della primavera del 1999 (in occasione del cinquantesimo anniversario della fondazione della NATO presso l’Andrew Mellon Auditorium di Washington), dell’accordo di mutua assistenza militare GUUAM da parte dei capi di Stato di Georgia, Ucraina, Uzbekistan, Azerbaijan e Moldova, in base al quale «Moldova e Ucraina mettono a disposizione il proprio territorio per la costruzione di condutture energetiche» (3). In quell’occasione, Georgia, Uzbekistan ed Azerbaijan annunciarono l’abbandono del Commonwealth of Indipendent States (il patto militare atto a regolare la cooperazione militare tra le ex repubbliche sovietiche sotto l’ombrello di Mosca), mentre l’Uzbekistan concesse agli Stati Uniti il diritto di installare una enorme base militare nel proprio territorio.
Mentre questi ex satelliti del Cremlino cercano o hanno cercato di recidere il legame con la Russia attraverso il trasferimento nel campo occidentale, Mosca continua a prodigarsi per ripristinare e consolidare le proprie storiche aree di influenza, conseguendo successi di rilievo. L’Ucraina, Paese che il grande scrittore russo Nikolaj Vasilevich Gogol amava definire “piccola Russia” (Malorossiya), si trova attualmente al centro della “grande scacchiera”. Le decisioni che Kiev sarà chiamata ad assumere risulteranno pertanto fondamentali nella definizione dei futuri rapporti di forza internazionali, in un contesto di multipolarismo caratterizzato dallo scontro multilaterale (emerso, tra le altre cose, con la crisi siriana e il cosiddetto “datagate”) tra Russia e Stati Uniti che ha portato svariati analisti ha parlare di “nuova Guerra Fredda”.
NOTE
1) Carl Schmitt, Teoria del partigiano, Adelphi, Roma 2005.
2) Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera. Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana, Longanesi, Milano 1998.
3) “Financial Times”, 6 maggio 1999.