Sommario del numero XXXII (4-2013)
“Il prossimo scontro sarà tra gli Stati Uniti e la Cina” (Lionello Lanciotti, Dove va la civiltà cinese?, Roma 2005, p. 28).
Nel loro famoso libro sulla “guerra senza limiti”, Qiao Liang e Wang Xiangsui hanno indicato come “operazioni di guerra non militari”1 alcuni generi non convenzionali di conflitto che caratterizzano gli scontri attualmente in atto nella realtà internazionale: la guerra commerciale, la guerra finanziaria, la nuova guerra terroristica, la guerra ecologica.
A queste nuove forme di guerra sarebbe il caso di aggiungerne un’altra, configurabile come una dinamica geopolitica che contribuisce a spostare definitivamente verso l’Eurasia il baricentro del potere mondiale: la guerra dell’oro.
Secondo William Kaye, un ex della Goldman Sachs che gestisce fondi finanziari a Hong Kong, “la Cina possiede tra 4.000 e 8.000 tonnellate di oro fisico. Non solo i Cinesi sono i più grandi produttori di oro, ma sono anche i maggiori importatori di oro al mondo. La Cina accumula in maniera rapida e massiccia l’oro estirpato all’Occidente. (…) Penso che la Cina non abbia terminato di accumulare oro. Dai forzieri occidentali ne è uscito molto, lo hanno ammesso le grandi banche centrali: la Federal Reserve, la Banca Centrale Europea e la Banca d’Inghilterra”. Kaye afferma che l’oro della Federal Reserve è diventato proprietà della Banca Popolare Cinese e, in parte, anche della Reserve Bank of India e della banca centrale russa. “Nei forzieri della Federal Reserve – dice – non c’è più nulla”2.
L’eventualità che la Cina riprenda il suo ruolo di grande potenza mondiale ossessiona da tempo la classe politica statunitense. A Richard Nixon, che normalizzò i rapporti degli Stati Uniti d’America con la Repubblica Popolare Cinese, viene attribuita la frase seguente: “Basta fermarsi un momento a riflettere su cosa accadrebbe se qualcuno capace di assicurare un buon sistema di governo riuscisse a ottenere il controllo di quel territorio. Buon Dio, nessuna potenza al mondo potrebbe… Voglio dire, mettete 800 milioni di cinesi al lavoro con un buon sistema di governo, e diventeranno i leader del mondo”3.
Al “secolo americano” ormai tramontato non seguirà il “nuovo secolo americano” progettato dai vari Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz, Richard Perle, Zalmay Khalilzad ecc. Che al “secolo americano” stia per subentrare un “secolo cinese” è timore ormai ampiamente diffuso negli ambienti atlantisti. In un dibattito di due anni fa che annoverava Henry Kissinger tra i suoi partecipanti, un professore di storia dell’economia dell’università di Harvard che di Kissinger è il biografo ufficiale, Niall Ferguson, ha detto: “Ritengo che il XXI secolo apparterrà alla Cina, perché lo sono stati quasi tutti i precedenti secoli della storia. Il XIX e il XX rappresentano un’eccezione. Per ben diciotto degli ultimi venti secoli la Cina è stata, in vario grado, la maggiore economia mondiale”4.
Ci pare interessante la frase con cui l’ex segretario di Stato nordamericano ha replicato al suo biografo: “Il punto non è se il XXI secolo apparterrà alla Cina, bensì se, in questo secolo, riusciremo a integrare la Cina in una visione più universale”5 – dove “visione universale” va naturalmente inteso come “visione occidentalista del mondo”. In che cosa consista il compito proposto da Kissinger risulta chiaro da una risposta che egli ha data nel corso di un’intervista del 2011: “Dobbiamo ancora vedere che cosa produrrà la Primavera araba. E’ possibile che in Cina ci saranno rivolte e manifestazioni (…) Non mi aspetto però sommovimenti della stessa portata della Primavera araba”6. Kissinger infatti esclude, giudicandola fallimentare, l’idea di applicare alla Cina la strategia perseguita a suo tempo dall’Occidente contro il blocco guidato dall’URSS: “Un piano americano che si proponesse esplicitamente di dare all’Asia un’organizzazione capace di contenere la Cina o di creare un blocco di Stati democratici da arruolare in una crociata ideologica non avrebbe successo”7.
La difficoltà di praticare una politica che si limiti a “contenere la Cina” ha favorito la nascita di un’altra concezione strategica: quella che gli analisti della Rand Corporation, unendo i termini containment ed engagement, hanno denominata congagement. Il senso di questa strategia venne così enunciato una quindicina d’anni fa da uno dei suoi teorici, Zalmay Khalilzad, che era stato ambasciatore in Iraq e in Afghanistan nonché consigliere del Segretario della Difesa Rumsfeld: “Se la Cina opta per la cooperazione con l’attuale sistema internazionale e diventa progressivamente democratica, allora questa politica evolverà in un mutuo partenariato. Se invece la Cina diventa una potenza ostile e interessata all’egemonia regionale, allora la nostra posizione evolverà nel containment“8.
In ogni caso, gli strateghi statunitensi dovrebbero aver preso atto che un attacco frontale contro la Cina sarebbe destinato all’insuccesso. Come ha avvertito Jordis von Lohausen, “i tentativi di intrusione economica o militare – la sua estensione è troppo vasta – non possono nulla contro di essa. Essa è di un’altra razza e di una cultura antica, di gran lunga più antica. La Cina ha accumulato tutta l’esperienza della storia mondiale e resiste ad ogni trasformazione. La Cina è inattaccabile”9.
* Claudio Mutti, direttore di “Eurasia”.
1. Qiao Liang e Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, a cura del Generale Fabio Mini, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001, p.80.
2. www.rischiocalcolato.it/2013/11
3. AA. VV., Il XXI secolo appartiene alla Cina?, Mondadori, Milano 2012, p. 12.
4. AA. VV., op. cit., p. 12.
5. AA. VV., op. cit., p. 23.
6. Conversazione di John Geiger con Henry Kissinger, in: AA. VV., op. cit., p. 74.
7. H. Kissinger, Cina, Mondadori, Milano 2011, pp. 441-442.
8. Zalmay Khalilzad, Congage China, IP-187, Rand Corporation, Santa Monica 1999.
9. Jordis von Lohausen, Mut zur Macht. Denken in Kontinenten, Kurt Vowinckel, Berg am See 1981.